scrivere per vivere vivere per scrivere

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La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati. (René Descartes) ********************************************************************************************** USQUE AD FINEM

mercoledì 1 giugno 2016

Anni di Piombo







Domani sarà la festa della Repubblica. Una festa importante. Si festeggiano di conseguenza l'uscita da una guerra mondiale devastante, la fine della guerra civile, la caduta della monarchia, e l'inizio di un futuro che agli italiani del 1946 appariva radioso e pieno di promesse. Non voglio entrare nel merito degli accadimenti politici che sarebbero avvenuti nei decenni successivi. Non è nemmeno giusto ridurre tutto a semplice post per un blogghetto qualsiasi come il mio. Si potrebbero spendere mille parole per commemorare la scelta che portò i nostri padri a darci il tipo di democrazia che, nel bene o nel male, permette a tutti noi di vivere come viviamo. A darci, sì, perché per loro è stata una conquista, quel tipo di libertà che molto spesso diamo per scontata e che noi abbiamo ottenuto in regalo.
Ho deciso quindi di pubblicare un raccontino già uscito per un altro blog e che mi sono divertito oggi pomeriggio a rimaneggiare e ripubblicare. Probabilmente chi è troppo giovane rimarrà del tutto indifferente, chi invece ha superato di molto i quarant'anni e magari negli anni '70 è vissuto in città come Genova, Torino, Milano, Roma, dove i morti ammazzati erano all'ordine del giorno e le manifestazioni violentissime, beh, per loro qualche ricordo affiorerà.
Nulla di speciale, soltanto un raccontino, appunto. Nulla di esaltante, nessuna valenza politica, soltanto lo scribacchiare di un ex bambino di quegli anni che di cose ne ha viste. Uno spaccato dell'Italia del 1979, per ricordarci che il cammino per la democrazia è passato anche attraverso quei tempi duri, uno dei tanti periodi foschi, violenti, ma anche entusiasmanti, che la nostra Repubblica ha attraversato.
La strada è ancora lunga.



Non sento freddo.

Guardo fisso un cartellone pubblicitario della famosa gomma del ponte senza guardarlo realmente. Hanno fatto più danni alla causa quelle cazzo di gomme da masticare  e la pubblicità della Coca-Cola che mille cariche della Celere.

Immobile.

Non ho paura.

Non sento freddo. Il pizzicore sulle guance e la condensa del mio fiato direbbero il contrario.

Immobile.

Chiudo gli occhi e cerco di immaginare le mosse successive. Ho un compito da svolgere.

Ho già ucciso. Più volte. Tocco la tasca del cappotto e percepisco la solidità rassicurante della mia pistola. Apro gli occhi. Devo decidermi. È il momento di entrare nell'edificio.

Su, al terzo piano, c'è l'ufficio di quell'infame che devo ammazzare. È giusto che paghi con la morte, per quello che scrive.

Reazionario di merda, giornalista servo. Mi guardo intorno. Nessuno.

Giornata di un inverno rigido ed è l'ora di pranzo. Il bersaglio non mangia mai a casa, rimane nel suo studio a scrivere, si accontenta di un panino e di una birra. Anche i bastardi si nutrono.

Salgo le scale con calma. Ho deciso di non prendere l'ascensore. Troppo rumore. Meglio lasciare che il palazzo rimanga nel silenzio ovattato di un mezzogiorno invernale. Pochi e lontani suoni di posate e piatti che si scontrano, qualche risata distante, un cane che abbaia.

Il mio bersaglio sa di essere nel mirino. Più volte lo abbiamo avvisato con lettere indirizzate al suo giornale. Non ha mai smesso di scrivere le sue falsità. Stronzo ostinato.

Impugno la mia arma e suono il campanello: tre volte, velocemente. È lo scampanellio di quelli di famiglia, dei collaboratori. Pedinamenti e appostamenti servono.

Un uomo mi apre, fissa la canna della pistola con rassegnazione. Non parla. Non parlo. Tiro indietro il cane del revolver.

Immobili.

Improvvisamente rumore, una porta che si apre, vociare di bimbo, passi e saltelli sulle scale, una madre, forse, che urla isterica le solite raccomandazioni.

In pochi secondi un ragazzino è accanto a me. Mi fissa spaventato, percepisco il  suono del fiato mozzo, lo immagino.

Io e il bersaglio rimaniamo immobili.

Nella mia testa una voce: "non ti voltare, fregatene, fai quel che devi e scappa."

Mi volto.

Con la coda dell'occhio vedo l'uomo armeggiare dietro la cintola. In pochissimi secondi accade l'inevitabile. «Tutto bene bambino, non avere paura.» Gli sorrido.

Poi lo sparo. Sono a terra.

Immobile.

Nelle orecchie Dust, dei Midnight Oil

Sorrido, ancora.

Ho freddo.

Buio.









© 2016 di Massimiliano Riccardi