e ospito come Special guest Blogger Ivano Landi. All'iniziativa partecipo a mia volta come guest blogger nel sito di Cercatore di favole, il mio post lo trovate QUI.
La tematica è importante e devo dire che rientra nel mio personale gusto letterario. Trattazione lucidissima. Ivano ha volato alto come solo le menti libere possono fare, ringrazio per questo post meraviglioso. In fondo di cosa si tratta? Siamo quattro amici che chiacchierano e dissertano su libri e autori, bene o male non importa. Questa è cultura, quella vera. Fuori dai circuiti accademici che se la cantano e se la suonano tra loro.
Non aggiungo altro, lascio che sia lui a parlare. Gustatevi questo articolo interessantissimo.
La tematica è importante e devo dire che rientra nel mio personale gusto letterario. Trattazione lucidissima. Ivano ha volato alto come solo le menti libere possono fare, ringrazio per questo post meraviglioso. In fondo di cosa si tratta? Siamo quattro amici che chiacchierano e dissertano su libri e autori, bene o male non importa. Questa è cultura, quella vera. Fuori dai circuiti accademici che se la cantano e se la suonano tra loro.
Non aggiungo altro, lascio che sia lui a parlare. Gustatevi questo articolo interessantissimo.
Massimiliano Riccardi
Memoria e resurrezione
degli io nell’opera letteraria di Marcel Proust e Henry Miller
di Ivano Landi
di Ivano Landi
Il solo tipo di memoria che desidero conservare è la
memoria di tipo proustiano. Mi basta sapere che esiste questa memoria
infallibile, totale, esatta.
(Henry Miller, I
libri nella mia vita)
Ciò che si disperde quando la memoria apre porte e
finestre è quel che non è mai esistito tranne che nel terrore e nell’angoscia.
(Henry Miller, Ricordati
di ricordare)
Non essendo io un grande fruitore di critica
letteraria non faccio molto testo, ma non ricordo che mi sia mai capitato di
trovare accostati tra loro i nomi di Marcel Proust e Henry Miller. Eppure che
il romanziere francese sia stato uno dei modelli letterari dello scrittore
americano, come testimonia anche la prima delle due citazioni riportate sopra,
è fuori discussione. Per questo, nel presente articolo, ho scelto di porre la
mia attenzione più sull’affinità essenziale tra i due scrittori che sulle
numerose differenze di superficie. Per cominciare, entrambi loro condividono una
prima forte consapevolezza: lo scrigno del tesoro è nascosto nel passato, e non
in chissà quale passato storico ma nel passato individuale di ognuno. Una consapevolezza
che ha il duplice effetto, da un lato di “costringerli” ad adottare il punto di
vista autobiografico nella scrittura, dall’altro di metterli fin da subito davanti
a un problema che deriva proprio da questa obbligatorietà, ossia alla
conseguenza di doversi occupare di cose abbastanza lontane da quella che era, ai
loro occhi, la realtà più autentica.
Ho cominciato la mia carriera di
scrittore col proposito di dire la verità su me stesso. Che compito fatuo! Che
cosa può esserci di più fittizio della storia della propria vita?
Così scriveva Henry
Miller nel 1950, all’apice della sua maturità di scrittore. E tuttavia, una
volta assodato che lo scrigno del tesoro è nascosto nel proprio passato, se si
vuole disseppellirlo non c’è altra scelta che scavare. E quale strumento di
scavo si può utilizzare se non la memoria?
Sembra una
conclusione ovvia, ma ecco che insorge subito un nuovo problema. E stavolta do la
parola a Proust:
E’ fatica inutile cercare di evocare
il passato, in quanto tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani.
E allora le
oltre tremila pagine del romanzo Alla
ricerca del tempo perduto, tutte dedicate al passato, da dove saltano
fuori? Come le ha concepite Proust, se ogni sforzo dell’intelligenza di evocare
il passato è destinato a un inevitabile insuccesso?
Cercherò di
mostrarlo, ma per gradi, cominciando proprio dalla ricerca di alcune analogie
tra le creazioni letterarie più importanti dei due scrittori protagonisti
dell’articolo.
Tra le opere di
Miller, la trilogia della Crocifissione
rosea è senza dubbio quella che osa avvicinarsi di più, anche per
corposità, alla Recherche proustiana.
Ma le accomuna anche il loro essere, entrambe, opere incompiute. Proust non
ebbe il tempo di riscrivere, come avrebbe voluto, gli ultimi due volumi del suo
monumentale romanzo, e riuscì solo a dettare, dal proprio letto di morte, il
racconto di un’altra morte, quella dello scrittore Bergotte. Miller, da parte
sua, non portò mai a termine, com’era nei suoi piani, la seconda parte di Nexus. Fu forse troppo precipitoso nel
dare alle stampe la prima parte, che si presenta in effetti come un’opera
dimezzata nelle proporzioni rispetto ai primi due volumi della trilogia?
Precipitoso allo stesso modo di Proust che, tre decenni prima, aveva dimostrato
un’eccessiva fretta di morire?
Un’altra
caratteristica che accomuna le due opere è che entrambi gli scrittori le
consideravano un tutto unico e solo le esigenze editoriali li avevano costretti
a pubblicarle divise in più parti.
Miller
testimonia il fatto in una lettera all’amico scrittore Lawrence Durrell:
Non
dipende da me se questi volumi vengono stampati separatamente. Io avrei voluto
tenerli fino a quando avrei finito di scrivere l’ultima pagina. Ma Girodias mi
supplicò e io cedetti.
Ma, come ho
detto, a dispetto di questa e altre dichiarazioni di buona volontà, Miller non
appose mai la vera parola fine alla sua trilogia.
Ecco una parte
della replica di Miller a propria difesa:
Ho
cercato di catturare una miseria e una sterilità che pochi uomini hanno
conosciuto. Sarebbe stato molto meglio essere un avanzo di galera! Ma io avevo
solo questa vita da raccontare. Quella passione che secondo te manca è presente, ma al negativo; mi ero proposto di
raccontare quella vita di “attività insensata” che i saggi hanno sempre
condannato, perché equivalente alla morte. Ma, come dico io stesso verso la
fine del secondo libro [Plexus], soffrii della mia stessa ignoranza, e per me
fu una bella lezione. Tirando le somme, forse la mia vita somiglierà a
un’enorme piramide costruita sotto un segno negativo. Eppure, nonostante tutto,
una piramide; e forse la si comprenderà meglio quando sarà capovolta.
Miller parla qui
di una piramide. Mentre Proust aveva paragonato Alla ricerca del tempo perduto a una cattedrale. C’era stato addirittura
un momento in cui lui aveva pensato di intitolare le varie parti secondo una
nomenclatura architettonica: Portico I,
Portico II, Abside, ecc. E proprio alla sua natura di opera-cattedrale, Proust
aveva attribuito la quasi impossibilità di portare a conclusione il suo
romanzo.
Entrambi gli
scrittori usano quindi una metafora architettonica, sebbene chiamando in causa
due forme tra le più lontane tra loro possibili (come lontani erano del resto lo
stile e la personalità dei due autori). Ma è soprattutto la parte in cui Miller
parla della necessità di arrivare al momento finale, in cui la piramide sarà
capovolta, a rendere fortissima l’analogia. Miller poteva solo avere in mente
qualcosa di paragonabile agli eventi descritti da Proust nel Tempo ritrovato, quando la memoria inonda
finalmente di luce, in retrospettiva, l’intera cattedrale della Recherche e Marcel – il protagonista del
romanzo - acquista la piena consapevolezza del senso della sua intera vita, e
del destino che vi si è manifestato, perché, lo si dica una volta per tutte, ogni cosa è destino. Tradotto in termini
psicologici, la cattedrale illuminata dalla memoria è l’inconscio, e tornerò
presto su questo, ma qui è implicito anche un altro grande passaggio, che è
quello dalla dimensione della vita alla dimensione dell’arte. Un passaggio che si
traduce, alla fine dell’ultimo volume della Recherche,
Il tempo ritrovato, nella decisione
di Marcel di consacrarsi completamente alla scrittura di un grande romanzo – che
altro non è che il romanzo che il lettore ha appena terminato di leggere.
Perché la struttura dell’opera è esattamente circolare come il tempo, e non
potrebbe essere altrimenti essendo il suo soggetto proprio il disvelamento del
segreto del tempo.
Ma perché
Marcel, una volta arrivato alla Comprensione, quella con la c maiuscola, fa questa
scelta di “esilio”, che rispecchia naturalmente quella compiuta dallo stesso
Proust?
È lo scrittore a
dircelo:
La vera vita, la vita finalmente
scoperta e compresa, la sola vita realmente vissuta, è la letteratura.
Una
dichiarazione che sarà ribadita, alcuni decenni dopo e con altre parole, da
Miller:
La narrativa è sempre più vicina
alla realtà che non i fatti stessi.
Certo, in Proust
la sostituzione della vita con l’arte si tradusse in termini molto più
letterali che in Miller: il dandy che dopo una brillante vita mondana si seppellì
(sebbene meno di quel che lasci trapelare la leggenda) in una stanza foderata
di sughero. Ma qui entrano in gioco i temperamenti, quasi in tutto opposti tra loro,
dei due scrittori: tanto estenuato, lunare e passivo era quello del francese, quanto
sanguigno, solare ed estroverso era quello dell’americano. Ad accomunarli è
invece il distacco da loro stessi, che li mette in condizione di gettare uno
sguardo lucido e disincantato su ogni cosa e in primis sull’uomo e sul
consorzio umano.
Detto questo, possiamo
tornare adesso alla nostra domanda fondamentale: Se ogni sforzo dell’intelligenza di evocare il passato è destinato al
fallimento, cosa c’è all’origine della scrittura di Proust e Miller?
La risposta è
che c’è un diverso tipo di memoria, non collegata all’intelligenza, che ha un
nome che non è mai stato un segreto e sarà quindi già noto ad alcuni di voi: la
memoria involontaria.
E anche qui si
tratta di una sostituzione, altrettanto decisiva di quella della vita con
l’arte. Ma è anzitutto una sostituzione necessaria, se si vuole scavare alla
ricerca del tesoro sepolto poiché, scrive ancora Proust:
Le informazioni che dà la memoria
volontaria non trattengono nulla del passato. Sono vuote come l’io a cui sono
pertinenti.
Ecco un altro
passo fondamentale. Alla oscura diade memoria volontaria-intelligenza, si
aggiunge ora un terzo elemento, l’«io», che condivide con i due precedenti la
caratteristica di una sostanziale irrealtà.
Diventa così
chiaro perché Miller definisca “fittizia” la storia della nostra vita; non
potrebbe essere altrimenti, essendo tale storia pertinente all’«io», cioè a
qualcosa per sua natura fittizio.
Siamo davvero
arrivati stavolta a un punto cruciale: la memoria involontaria si rivela adatta
al compito proustiano (e milleriano) della memoria perché è sia estranea al
dominio dell’«io» e dei fatti che vi sono collegati, sia al dominio
dell’intelligenza.
Ma a cosa è
collegata allora la memoria involontaria? Qual’è il regno da cui proviene e in
cui si muove? E’ adesso il turno di Miller di rispondere:
Vi sono giorni nei quali il ritorno alla vita è penoso
e doloroso. Si abbandona il regno del sonno contro la propria volontà. Non è
accaduto nulla, tranne la consapevolezza che la realtà più profonda e più vera
appartiene al regno dell’inconscio.
Quanto sia fondamentale il regno del sonno per la
genesi e lo sviluppo della Recherche
è noto, e questa frase potrebbe benissimo averla scritta Proust. Ma la
conclusione che più mi interessa trarre qui è che il regno della memoria
involontaria altro non è che la “realtà più profonda e vera” del regno
dell’inconscio. È “dall’oscurità
e dal silenzio” di questo regno che secondo
Proust provengono i veri libri, le vere opere d’arte, mentre dal mondo
“dalla piena luce e dalla conversazione” che attiene all’intelligenza e all’io,
possono provenire solo opere mediocri.
Una delle “scoperte”
fondamentali di Proust fu proprio quella dell’illusorietà della continuità del
nostro «io» – un’illusione prodotta dall’asservimento della nostra memoria alla
tirannia dei fatti. In realtà, la nostra esistenza è costituita dalla contemporaneità
e/o successione di una moltitudine di io, che nascono e muoiono senza sosta:
Capivo
che morire non è qualcosa di nuovo, ma che, al contrario, sin dalla mia
infanzia, ero già morto più di una volta.
Il destino di
ognuno di questi io è di precipitare, alla sua morte, in una sorta di cimitero
interiore, un Ade situato in noi ma al di là del tempo e dello spazio, dove
rimangono come addormentati, in attesa di un loro eventuale risveglio provocato
da un intervento esterno casuale – cioè estraneo alla nostra volontà. Mentre la
memoria volontaria in tutto questo è solo di impaccio, poiché guardare
volontariamente indietro non significa nient’altro che, così come era stato per
Orfeo con Euridice, imbattersi in un fantasma. La memoria volontaria ha inoltre
la caratteristica della fissazione ossessiva tipica dell’«io»:
Gli
occhi del ricordo finiscono per non vedere più niente, quando li si fissa
troppo - scrive Proust.
La memoria
involontaria dipende invece dal tempo e dai suoi meccanismi, che dopo aver cancellato
le nostre impressioni per mezzo dell’oblio può “decidere” di farle risorgere. E
ogni volta che si risveglia in noi il ricordo di un’impressione, si risvegliano
contemporaneamente tutte le impressioni che vi sono collegate e formano il
nucleo di quel particolare io.
L’intenzione
iniziale di Proust era proprio quella di scrivere un libro che fosse tutto
composto di queste impressioni risvegliate, imbevute in modo indelebile della
luce dell’eternità, frutto dell’estasi extratemporale o estasi metacronica. Il problema principale era però costituito dalle
intermittenze: come era possibile scrivere soltanto con delle “gocce di luce”? Si
chiese Proust. Alla fine comprese che ogni cosa, come nei miti orfici, poteva
solo avere inizio dalla notte (Per molto
tempo, sono andato a letto presto…),
con
tutto quel che vi era di collegato incluso il male più abissale. Ma si era
anche illuso di finire presto, di restare recluso solo per pochi mesi, un anno
al massimo. Poi avrebbe ripreso a vivere, a frequentare la bella società…
Il primo
contatto di Marcel – il protagonista della Recherche
- con la memoria involontaria è talmente noto da essere diventato una sorta di emblema
del romanzo di Proust.
Mentre rientra a
casa, in una sera d’inverno, la madre offre a Marcel una tazza di tè con una madeleine, con questo risultato (mi
permetto qui, per un’unica volta, un comodo copia-incolla da Wikipedia):
Appena
riconosciuto il sapore del pezzo di madeleine imbevuto nel tè caldo che una
volta, molti anni addietro, era d'uso preparargli sempre la zia quando si
trovavano a Combray, intere sezioni di memoria cominciano a venire a galla
"proprio come nel giuoco in cui i
giapponesi si divertono a mettere in ammollo in una ciotola di porcellana piena
d'acqua piccoli pezzi di carta i quali, fino ad allora rimasti indistinti, cominciano
a prender forma diventando fiori, case, personaggi coerenti e riconoscibili".
La memoria
involontaria nasce quindi dall’interazione, che è una sovrapposizione, di un
momento presente con un momento passato, il cui risultato è la resurrezione dell’io
che ha vissuto l’esperienza originale e la contemporanea liberazione del
ricordo, prima imprigionato nelle cose. L’insorgenza della memoria involontaria
dipende infatti sempre dall’intervento di oggetti concreti, accessibili ai
sensi: una pietra mal squadrata che oscilla, il suono di un cucchiaio contro un
piatto, un tovagliolo premuto contro le labbra. Questo perché anche i veri
ricordi sono frutto di un’interazione. E più esattamente, come scrive Proust:
un
precipitato dell’interazione tra la sempre mutevole coscienza personale e
l’incessante mutamento del mondo.
Ma anche se la
memoria involontaria è messa in moto dal caso, si tratta sempre e comunque di
un caso necessario, governato dalla onnipresente
legge del destino. Così che alla fine è proprio la casualità a essere la
miglior garante della sua fondatezza nella verità:
…la
maniera fortuita, inevitabile, con cui la sensazione era stata incontrata,
controllava la verità del passato che essa resuscitava, la verità delle
immagini che metteva in movimento, giacché sentivo il suo sforzo di risalire
verso la luce e la gioia del reale ritrovato.
Mentre il
tessuto o la sostanza stessa che forma il continuum della memoria (anche se qui
sarebbe forse il caso di scrivere “Memoria”) e fa da fluido connettivo (fondu, in gergo proustiano) tra i veri
ricordi, è la luce.
E a proposito
della luce, penso che chiunque abbia letto a fondo Henry Miller conosca, o
dovrebbe conoscere, le voragini che si aprono improvvise nelle pagine dei suoi
libri, quando un momento del passato, casualmente
richiamato dalla legge dell’analogia, si sovrappone al momento presente. Sono abissi
altrettanto densi di luce di quelli evocati da Proust, e non fa quindi meraviglia
che lo stesso Miller, parlando della rilettura del suo Sexus durante la correzione delle bozze, scriva a Durrell di essere
“rimasto abbagliato”.
Sempre Miller
scrisse una volta che non sarebbero bastati duemila libri a trascrivere il
contenuto di una vita umana. Il compito della memoria proustiana si esaurisce infatti
solo nel momento in cui l’intero regno dell’ombra è riportato alla piena luce,
nel momento in cui tutti gli io sono divenuti oggetto di resurrezione. Deve
essere tuttavia chiaro che il movimento qui proposto è esattamente rovesciato
rispetto a quello operato dalla psicanalisi di stampo freudiano, che cominciava
a diffondersi proprio all’epoca in cui Proust stava scrivendo. Non sono le
parti inconsce a dover essere integrate nell’io così come noi lo percepiamo, ma
è quest’ultimo che deve essere assorbito nel meccanismo del tempo, divenendo
così soggetto alle sue leggi di morte nell’oscurità dell’oblio e resurrezione
nella luce immutabile ed eterna della Memoria. Allora, in questo altro, nuovo regno della
piena luce, perfino gli avvenimenti più dolorosi del passato cessano di gettare
la loro ombra.
E voglio concludere ancora con Miller, con
una citazione da Ricordati di ricordare
che mi sembra costituire il cappello perfetto di questo articolo:
Uomini deboli, uomini
accorti, uomini tristi, uomini di mondo hanno tentato di farci credere che la
nostra vita è vana e inconsistente, che viviamo senza uno scopo, consigliandoci
al tempo stesso di godercela finché possiamo. Ma quando s’apre una prospettiva
importante, l’influenza di costoro evapora come sudore.
* * *
Opere in cartaceo consultate:
Alla
ricerca del tempo perduto, Rizzoli 1985. A cura di Giovanni Bogliolo e Piero
Toffano. Traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini.
Alla
ricerca del tempo perduto, I. Dalla Parte di Swann. Newton &
Compton, 1990. A cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso.
Pietro Citati, La colomba pugnalata. Proust e la Recherche. Mondadori 1995.
Henry Miller, La crocifissione in rosa (Sexus-Plexus-Nexus).
Mondadori 1991-1993.
Henry Miller, Ricordati di ricordare. Einaudi 1965. Traduzione di Vincenzo
Mantovani.
Henry Miller, I libri nella mia vita. Einaudi 1976. Traduzione di Giorgio Agamben.
Ribadisco quanto enunciato in apertura post: Trattazione lucidissima, Ivano ha volato alto, ha osato come solo le menti libere possono fare. Commosso ringrazio per questo post meraviglioso. Siamo quattro amici che chiacchierano e dissertano di libri e di autori, bene o male non importa. Questa è cultura. Quella vera. Fuori dai circuiti accademici che se la suonano e se la cantano tra loro.
RispondiEliminaBlogger non mi ha segnalato il post che poco fa -_- Ripasso per lettura (anche del tuo guest) appena ho "tempo" e calma! So già che sarò entusiasta dei vostri lavori *__*
RispondiEliminaBuna serata e a poi ^^
Grazie Glò, ma il mio è solo un raccontino.
EliminaMolto interessante e complimenti ad Ivano: tra tutto, emerge la grande passione a monte per tematiche e autori. Davvero vien voglia di approfondire *_*
EliminaMassimiliano, il tuo raccontino dice molto ;) Bravo!
Buona serata a tutti ^_^
Grazie ancorà Glò, mi prendo i complimenti con piacere e li giro tutti a Ivano.
EliminaVa beh, qui si parla a livelli troppo alti, non si può fare che i complimenti...davvero, bravissimo!
RispondiEliminaGrazie infinite per i complimenti! Domani pomeriggio conto di passare a leggerti anch'io.
EliminaIvano!!! Che dirti? A parte che, sono contentissima di questo tuo articolo, così ben congeniato, come una architettura che apre una miriade di spunti!!! Concordo, sei stato bravissimo, dovresti fare il prof a scuola :D
RispondiEliminaInoltre per una serie di motivi che non sto qui a citare, sei in perfetta sincronia con alcune mie letture sul senso del tempo, dei ricordi e di vivere il presente in tutto e per tutto, anche se dalla citazione finale sembrerebbe affermare il contrario.
Anche sostenere il mondo dei sogni come una parte integrante del nostro vivere appieno la vita e sublimarci nella letteratura, nell'arte non come riempitivi di una vita inutile, ma come incanalatori di energia vibrante....
oh lo continuerai vero?
:D Grazie anche a te Massimiliano per aver ospitato l'evento :) sei stato molto gentile, come tutti del resto, un salutone!
Bravi blogger :DD
Ximi, per me è stato un grande piacere. Grande.
EliminaGrazie del commento dettagliato Ximi. La citazione finale per me significa semplicemente non accontentarsi di vivere in una beata ignoranza della vera natura della realtà, con la scusa del "tanto non possiamo sapere niente di niente, allora tanto vale adagiarsi comodi comodi sul carpe diem che fa così trendy".
EliminaNon avendo mai letto nulla di Proust e Miller mi è un po' difficile seguire il discorso come merita, ma ho trovato molto intrigante l'affermazione di Miller riguardo il fatto che le opere provengano dall'inconscio. Una visione molto maieutica della produzione letteraria, che ha, direi, richiami con l'automatismo psichico puro del surrealismo.
RispondiEliminaMiller ha rotto tutti gli schemi della narrazione, ha creato una forma nuova di linguaggio, ha creato una scala di valori che mette in risalto ciò che di umano ci rende Dei, ha reso Dio umano. Uno sputo in faccia agli intellettuali di posa di allora, ricordo sempre un passo del "tropico del capricorno": eran penosamente puliti, ma dentro puzzavano. Direi che possiamo adattarla a molte "degne persone e fini e colti luminari dei nostri giorni. Ai servi di palazzo.
RispondiEliminaPer fortuna mi trovo in compagnia di un illustre milleriano come Massimiliano, che può affrontare a sua volta il discorso con cognizione di causa. Verissimo che i due Tropici sono stati come due atomiche sganciate senza preavviso nel mare magnum letterario dell'epoca. Poi il suo stile di scrittura si è fatto meno agitato e più strutturato, ma sempre zeppo di affondi memorabili, in particolare nei confronti della società americana.
EliminaMa che illustre milleriano, l'ho solo letto e apprezzato. Dovessi dirti quando lo lessi da giovane colsi solo gli aspetti più smaccatamente pruriginosi, certe consapevolezze sono arrivate dopo.
EliminaCome leggere un testo di studio di letteratura italiana. Uno di quelli fatti bene. Davvero una piacevolissima lettura, mi ha dato modo di conoscere più aspetti di Miller e di rinfrescare la memoria riguardo concetti e tematiche studiate a suo tempo. Alla fine del post mi sono ritrovato arricchito. Molto molto bello, bravissimo Ivano!:)
RispondiEliminaGrazie infinite per le belle parole, Cercatore. Se ha arricchito qualcuno, è il massimo che posso aspettarmi da questo post :))
EliminaI miei complimenti per il post.
RispondiEliminaSaluti a presto.
Grazie mille dei complimenti, Cavaliere :))
EliminaPasserò a trovarti, che è un pezzo che non lo faccio. Difficile seguire sempre tutti -_-
Sinceramente per me si vola troppo alto... non so che dire se non ammirare la capacità di Ivano di sondare i testi e cavarne un senso. L'unica riflessione che mi viene in mente è che l'utlizzo di memorie diverse da quella conscia aumenta la possibilità di attingere a quella memoria collettiva dove è iscritta la storia di ognuno e che quindi è comprensibile più a livello, appunto, di sogno che di realtà. Si può dire, con tutti i distinguo del caso, che siamo di fronte alla stessa esperienza degli scrittori 'maledetti, da Kerouack a Dick fino alle esperienze di A. Huxley?
RispondiEliminaPurtroppo degli autori che citi, Juan, so davvero troppo poco per fare confronti con il metodo, o anti-metodo, di Proust e Miller. Quest'ultimo in realtà non ha mai avuto nessuna simpatia per le esperienze alternative stile figli dei fiori, con tutto il loro armamentario psichedelico, quindi immagino ci siano delle differenze e forse anche rilevanti.
EliminaUn vero florilegio per due autori le cui opere avranno sempre degli estimatori.
RispondiEliminaCredo che se potessero ringrazierti, lo farebbero.
Cristiana
Wow, che bel commento, Cristiana :) "Florilegio" poi è una parola che mi piace molto.
EliminaE in ogni caso, tutti questi commenti e segni + in un post così lungo ma anche forse troppo condensato, sono già di per sé una bella forma di ringraziamento ;)
Hai fatto un gran bel lavoro, Ivano, complimenti! Non conosco l'opera di Miller, ma capirlo attraverso l'attenta disamina condotta in questo testo me lo ha fatto davvero apprezzare. Proverò ad approfondire.
RispondiEliminaGrazie anche al padrone di casa per questa bella lettura.
Un salutone Marina, grazie per la visita.
EliminaMille grazie, Marina :))
EliminaMiller non è un autore facile, e il fatto che spesso sia consigliata di lui solo la lettura dei due Tropici, che per quanto stilisticamente straordinari rappresentano una fase poco matura del suo pensiero, ha generato molti fraintendimenti su di lui.
E un grazie enorme, per la generosa ospitalità, va senza dubbio al padrone di casa :))
Una dote di Ivano (e già glielo dissi) è il rendere leggere e interessanti tematiche che per natura possono essere pesanti e con questo post si è confermato, nonostante sia un post lungo.
RispondiEliminaComplimenti!!!
In effetti temevo un po' un effetto pesantezza. Mi fa piacere sapere che non è così. Grazie mille, Michele :))
EliminaArticolo di Ivano molto professionale come sempre (se passa un docente universitario da queste parti fa copia/incolla e poi lo spaccia per suo ;-)
RispondiEliminaLa "morte" costante dell'io e la sua interminabile evoluzione sono temi interessanti trattati da filosofi dell'antichità e moderni, due letterati come Proust e Miller hanno probabilmente espresso narrativamente ciò che i filosofi hanno tentato di definire con saggi e tesi.
Ma secondo te i docenti universitari lo capiscono? :D :D :D
EliminaDirei che la tua analisi è più che perfetta, Ariano. Grazie del bel commento :)
Ivano riesce sempre a fare delle analisi acute rendendo la lettura leggera. Grazie anche a Massimilisno che lo ha ospitato, che bella la citazione finale di Miller.
RispondiEliminaOltre all'ospitale Massimiliano bisogna ringraziare anche la vulcanica Blogghidee, che ha permesso l'esistenza di questo articolo. Lo avevo da tanto in mente ma non mi decidevo mai a scriverlo.
EliminaGrazie per il passaggio e per il tuo molto gradito apprezzamento, Giulia :)
Miller è un grande e, come tutti i grandi, non fa prigionieri ^_-
Che articolo!
RispondiEliminaComplimenti vivissimi. :-)
Grazie grazie Pirkaf :))
EliminaCaspita, questo blog è un vero punto di ritrovo! Uno alla volta state arrivando tutti ^_^
Un buon Guest Post letterario è quanto di più prezioso che arricchisce soprattutto gli amici "fruitori" del Blog.
RispondiElimina^_^
Grazie Gennaro, mi ha fatto piacere ospitare Ivano, molto piacere.
EliminaGrazie anche da parte mia :)) Tornerò molto presto a occuparmi di Proust, però al mio indirizzo di residenza ^_-
EliminaQuesto post è magistrale e ha avuto un grande successo. Sono io che ti ringrazio.
EliminaPur avendo letto e amato "La crocefissione rosea", ormai molti anni fa, non ricordavo (o forse non ho mai saputo) che fosse un romanzo incompiuto. Davvero curioso perché se non sbaglio Nexus terminava con la sua partenza per l'Europa e quindi, tecnicamente, chiudeva perfettamente il racconto di una parte della sua vita.
RispondiEliminaLa seconda parte di Nexus doveva appunto narrare dei primi tempi a Parigi di Henry in compagnia di June.
EliminaIn realtà è stata anche pubblicata nel 2012, con il titolo "Paris 1928", in un'edizione che raccoglie tutti gli appunti lasciati da Miller e forma una parvenza di storia, ma non l'ho letta.
P.S.: mi dicono dalla regia che la famosa frase proustiana del "pezzo di madeleine imbevuto nel tè" viene citata anche da Lars Von Trier nel suo Nynphomaniac...
RispondiEliminaOra che mi ci fai pensare... mi sa che dovrò rivedere il film :O
Elimina