scrivere per vivere vivere per scrivere

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La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati. (René Descartes) ********************************************************************************************** USQUE AD FINEM

venerdì 10 febbraio 2017

Metropolitan Suite... in crescendo. Ritorno dei post inutili



Può capitare di restare imbambolati a osservare una scena rapiti dalle dinamiche tra due protagonisti. Catturati dai movimenti, dai cenni, dagli sguardi, dal significato profondo di cose non dette.
Lo sfondo è metropolitano, c'è caos: Il solito rombare di auto e mezzi pubblici; il via vai di gente distratta; una coppia di fidanzatini che si baciano sulla panchina nella piazzetta di fronte, zaini a terra in un orario che fa capire che oggi si marina la scuola; il matto che parla da solo e inveisce contro i passanti.
Può capitare.
Sì.
È come se mi trovassi dall'alto di una posizione privilegiata, da un attico, sono distaccato ma non assente.
Non è la giornata che tutti sperano di affrontare, il cielo è grigio, c'è vento, ci sono a terra  le tracce della pioggia notturna, mozziconi e cartoni bagnati ammiccano sfrontati ricordando a tutti che la città è capace di sporcare anche le cose preziose e pure cadute dal cielo.
Vengo urtato da una signora carica di borse della spesa, non si scusa nemmeno. La perdono, in fondo sono io a essere in mezzo ai piedi. 
Mentre la osservo attraversare la strada borbottando  la riconosco, è la signora Vicenta. Anni e anni in Italia per fare la donna delle pulizie nelle case di molti abitanti del mio quartiere. Dall'alba al tramonto, tutti i giorni della settimana. Una donna sfatta e sfiancata, sempre sorridente ma con gli occhi tristi. 
Ha fatto arrivare dall'Ecuador suo figlio per permettergli di studiare. Tutti sanno che il ragazzo a scuola ci va poco perché preferisce fumare eroina. L'ho sorpreso anche io nel mio portone mentre era indaffarato con il suo bel pezzo di carta stagnola, cannuccia tra le labbra intanto che il suo amico scaldava tutto con l'accendino da quattro soldi. Avrei lasciato perdere se solo non mi avesse guardato con aria di sfida, come se stesse facendo la cosa più normale del mondo e io fossi un idiota che non capisce. Quel giorno feci saltare con una mano tutto l'ambaradam, lo presi per un orecchio e lo trascinai fuori dall'androne del mio palazzo mentre l'amichetto in fuga mi insultava in spagnolo e il figlio della signora Vicenta mi guardava impaurito gemendo dal dolore. Non ero arrabbiato, soltanto triste. Ricordavo altre situazioni simili, momenti così vecchi da risalire a prima della nascita dello stupido che avevo tra le mani. Come un cretino facevo fatica a respingere il groppo in gola. Più il turbamento aumentava e più strizzavo l'orecchio di quel poveretto. 
Facevo pagare a lui le colpe di un altro stupido che da anni è andato a far da concime per i vermi. Anzi, oramai sarà polvere. Forse è per questo che ne sento ancora la presenza. La polvere si infila dovunque e non va mai via del tutto.
Il clacson tonante di un autobus mi riscuote da quel ricordo. Torno a concentrarmi sulla scena che stavo osservando. Mi accendo una sigaretta e, come se mi trovassi a una festa invece che in mezzo alla strada, mi appoggio comodamente al palo del semaforo. Con la coda dell'occhio noto il barbaglio dell'acqua piovana sulle strisce pedonali bianche e lucide. Chissà come mai quelle gocce sfavillanti mi rincuorano e mi mettono allegria.
Guardo verso l'improbabile coppia senza riuscire a reprimere un sorriso ebete che mi si stampa sulla faccia.
Si stanno avvicinando ma ancora non mi hanno visto.
Mia madre e mio figlio.
Mano nella mano chiacchierano, petulanti, complici. La mia vecchia ogni tanto si china verso il bimbo per ascoltarlo meglio. No, non è esatto, è come se gli andasse incontro con tutta se stessa, anima e corpo. Sono geloso, con me è stata una madre dura, severa, distaccata, sempre triste o arrabbiata. Sempre distratta dai problemi della vita. Sola.
Mio figlio è effervescente, come al solito. Bellissimo. Vitale. Vibrante. Risplendente. Accoglie con soddisfazione le espressioni di stupore e meraviglia della nonna. Chissà quali avventure le starà raccontando. Racconti minuti, gesti innocenti, gioia piena e inconsapevole. O forse no, forse è proprio lui ad aver capito tutto, ciò che conta davvero. Gli adulti hanno poca memoria, sono troppo impegnati per dedicarsi alla vita. Esistono, indaffarati, distratti, pieni di progetti che allontanano dalla vera essenza dell'io più profondo. I bambini amano, gioiscono, soffrono, direttamente dall'anima che ancora non si è costruita barriere.
Mi vedono.
Mia madre mi guarda e ricomincia la recita, lo sguardo è di colei che vuole farmi capire quanto è vecchia e stanca, si incupisce.
Bugiarda.
Quando il nipote le tira la mano per richiamare la sua attenzione, le torna lo sfavillio negli occhi.
Mio figlio mi chiama festante. Trascina la nonna e insieme caracollano verso di me.
In quel gesto mi ritrovo a essere più figlio di quanto non lo sia mai stato da bambino. Più padre che mai.
Mentre Il bambino mi abbraccia le gambe festoso, bacio sulla guancia mia madre e la ringrazio.
 La città è sempre la stessa, bigia, ventosa, rumorosa, sporca. Soltanto noi siamo di volta in volta diversi, alle volte migliori, più spesso semplicemente consapevoli.
Alle volte mi pongo delle domande stupide, non sono legate a quesiti su quanto posso essere bravo nel mio lavoro, su quante capacità relazionali possiedo, su quanti progetti sono stato in grado di portare a termine, se in me è ancora vibrante la giusta determinazione per rincorrere il successo.
Soltanto domande stupide.
Per fortuna accade raramente.
Mi ricordo delle cose che mi diceva la mia nonna, di come lei, molto semplicemente, si augurava soltanto che io diventassi un brav'uomo, molto banalmente desiderava questo. Non le importava cosa avrei fatto nella vita, sperava di crescere un nipote destinato a essere una brava persona. Tutto lì. Questo perché lei sapeva che la vita è una gran bastarda, io ancora dovevo scoprirlo del tutto.
Ecco quindi affiorare le domande sciocche.
Ma io sono un brav'uomo? Sono degno del dolore di chi mi ha messo al mondo? Sono degno di crescere e aiutare un essere che da me si aspetta tutto, e che guarda a me come l'unico in grado di permettergli di camminare da solo nel mondo, forte e indipendente?
Quesiti stupidi come dicevo.
Adesso però, non ho tempo per darmi quel tipo di risposte, devo rispondere a domande ancora più fondamentali e pressanti, mio figlio mi sta chiedendo se ho voglia di andare a casa con lui a giocare con i lego. Io odio i lego. Mi farò forza e cercherò di trovare l'entusiasmo per mettermi a costruire casette.
Ecco, ci pensa un bambino di cinque anni a darmi le risposte giuste. Che cretino che sono.



© 2017 di Massimiliano Riccardi

domenica 5 febbraio 2017

#imieiprimipensieri Scrittura di getto... della domenica



Va bene, ma sì, mi lancio. Partecipo anche io al gioco di Chiara Solerio #imieiprimipensieri.
Piccolo pezzo scritto in poco più di dieci minuti, non corretto e sull'onda dell'improvvisazione pura. Scusate i refusi, gli errori più o meno gravi, ma soprattutto abbiate pietà per il contenuto. Non ho voluto correggere nulla perchè sarebbero caduti i presupposti di questa iniziativa. Abbiamo tutti occasioni diverse per dimostrare la sapienza nel comporre articoli o post che dir si voglia. 
Pronti, partenza, e via…


L'amore vola

È sempre rischioso aprire il cassetto della memoria. Spesso trovi solo disordine e nulla più, oppure ricordi dolorosi.
Alle volte la nostalgia ti porta a pensare a colei che hai amato sopra ogni cosa. L'assoluto, il tuo assoluto. L'amore puro che non chiede nulla in cambio se non pochi segni di considerazione e cura.
Eri veloce, forte. Accarezzarti mi dava brividi che mai ho provato con nessun'altra. Sempre pronta. Per me.
Certo, ho discusso a lungo con falsi amici che dietro la loro finta complicità in segreto mi criticavano perché tu eri nera. Non mi importava. Che cosa stupida giudicare in base al colore.
Godevo nel sentirti vibrante sotto di me. Dio solo sa quanto godevo.
Ciò che più mi faceva male erano considerazioni legate a al tuo aspetto, non solo al colore. Frasi volgari del tipo: «Ma che tristezza, sembra un cancello, è messa male, non ha forme».
Io nulla, niente. Non replicavo mai. Ti amavo ma sapevo che il solo accennare a una difesa ti avrebbe offeso, perché tu eri superiore, altezzosa, una Dea.
Come un animale ti montavo, sì, non mi vergogno, come un animale, mi perdevo negli spazi infiniti dell'estasi. Senza una meta, senza uno scopo. Soltanto il desiderio di farmi trasportare nel tuo mondo fatto di vento e gioia mista a paura.
Ora non ci sei più. Piuttosto che lasciare ad altre mani il piacere e il privilegio di accarezzarti ho preferito distruggerti. Un po' sono morto anche io.
Ora di te mi rimangono soltanto poche fotografie. Le guardo con tristezza, a volte piango. Il dolore è così forte da lasciarmi senza fiato. Tremo, tremo dentro di me.
Non ti dimenticherò mai … mia amata Suzuki SV 1000. Eri nera e fiammante, 130 cavalli di emozione pura. Naked, nuda e cruda, senza carrozzeria. Vera. Bastava solo cambiarti l'olio e controllare le gomme, dissetarti con tutti gli ottani del mondo.
Sei stata mia.

Ti amo.



© 2017 di Massimiliano Riccardi